lunedì 9 febbraio 2015

Renzi contro le banche popolari: all’assalto della finanza, come Mussolini.


di Federico Dezzani
Appaiono sui media più anticonformisti e scanzonati accostamenti, peraltro non originalissimi, tra il Benito Mussolini ed il premier del Partito Democratico, Matteo Renzi: non troppo originali perché la politica italiana, scritta all’insegna del trasformismo parlamentare e del consociativismo, rigetta per reazione qualsiasi figura dal piglio decisionista, in cui si scorgono immediatamente derive fasciste.

Toccò nell’immediato dopoguerra a Enrico Mattei, l’instancabile organizzatore dell’ENI, tacciato da Indro Montanelli[1] e don Luigi Sturzo[2] di essere stato contagiato in gioventù dal virus fascista; venne quindi il turno di Bettino Craxi, che con Mussolini condivideva pure le origini socialiste, raffigurato nelle vignette di Giorgio Forattini con pantaloni alla zuava, stivali e petto gonfio sul balcone di Piazza Venezia; quindi fu la volta di Silvio Berlusconi, la cui inconcludente parabola politica è già venduta come “il Ventennio berlusconiano”, sebbene il numero di anni di governo effettivo si aggiri attorno alla metà.

È quindi il turno del premier Matteo Renzi che, tra l’altro, ha battuto il record detenuto da Benito Mussolini fin dal 1922 diventano premier all’età di 39 anni ed un mese, 60 giorni prima del ex-direttore dell’Avanti. Quali sono le analogie tra i due e quali le differenze? Vedremo che il percorso che li ha condotti alla guida dell’esecutivo è intrinsecamente diverso e lo dimostreremo focalizzandoci sull’approccio dei due verso il mondo della finanza: il salvataggio del Banco di Roma nel caso di Mussolini e la riforma delle banche popolari nel caso di Renzi.
Analogie tra Mussolini e Renzi.
La prima e più vistosa somiglianza tra Mussolini e Renzi consiste nella volontà accentratrice che in entrambi i casi finisce col svuotare di ogni figura di rilievo prima il partito e poi l’esecutivo. Mussolini, probabilmente anche a causa di un’indole diffidente e pessimista, non tollerò mai attorno a sé figure di spicco fino al consolidamento del regime (leggi fascistissime del 1926): in questa chiave deve essere letto l’allontanamento, addolcito con onorificenze e prebende, dei potenziali concorrenti politici nel PNF (l’intransigente Roberto Farinacci relegato a Cremona, Dino Grandi inviato a Londra come ambasciatore, Italo Balbo acquietato con la carica di governatore in Libia, Gabriele D’Annunzio rinchiuso nella prigione dorata del Gardone, Alberto De Stefani allontanato dalle Finanze, etc.): questa politica comportò per il PNF che i vertici fossero occupati da fedelissimi di Mussolini (Cesare Rossi) o personale di scarsa autorevolezza (Achille Starace, Giovanni Marinelli, etc.). Gli unici personaggi di uno certo spessore che Benito Mussolini tollerò attorno a sé furono i grand commis de l’état (Donato Menichella, Alberto Beneduce, etc.) cui era però riservato un mero ruolo di tecnici, privo di qualsiasi risvolto politico.
Nel caso di Renzi si riscontra una simile allergia verso qualsiasi figura che possa offuscare la sua stella: le decisioni sono prese dal premier su consiglio di una ristretta camarilla (Yoram Gutgeld, Davide Serra, Andrea Guerra, Davide Faraone, etc.) mentre i dicasteri sono privati di qualsiasi autonomia tanto che, per la prima volta da decenni, nessuno, tranne pochi addetti ai lavori, conosce l’intera lista dei ministri. Verso un simile processo di svuotamento avanza anche il Partito Democratico, il cui tesseramento non a caso si è già ridotto di 4/5[3]: il premier Matteo Renzi infatti, proprio come il duce si interrogava se sopprimere il fascismo in favore del mussolinismo, già medita di cambiarne la ragione sociale da PD in Partito della Nazione. Il progetto per un futuribile Partito della Nazione deve essere stato depositato parecchi anni fa nei cassetti dell’ambasciata americana di Via Vittorio Veneto, perché i primi a parlarne apertamente nell’aprile 2012[4] furono Beppe Pisanu, Franceso Rutelli, Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini, tutti nelle grazie di Washington.
Per restare in tema di politica estera, sia la scalata al potere di Mussolini che quella di Renzi sono avvenute solo l’ala protettrice della potenza dominante di turno (la Gran Bretagna per il primo e gli Stati Uniti per il secondo), sebbene il futuro duce abbia cercato e trovato in Londra sono una benevola accondiscendenza, mentre Matteo Renzi è stato trasportato in spalla da Washington fino alle soglie di Palazzo Chigi.
I contatti di Mussolini con Londra cominciano già nel 1914 quando il direttore del neonato Popolo d’Italia riceve cospicui finanziamenti esteri per la sua campagna interventista a fianco della Triplice Intesa; la Gran Loggia Massonica di Piazza del Gesù garantisce probabilmente l’assenso inglese alla Marcia su Roma del 1922; attorno alla difesa degli interessi petroliferi britannici in Italia ruota l’omicidio Matteotti[5]; filo-britannica è la politica estera dei primi governi Mussolini; in contatto con Wiston Churchill Mussolini rimane perfino durante la guerra (il famoso carteggio Mussolini-Churchill) e la sua stessa morte, insieme a quella di Claretta Petacci, deve essere ricondotta alla volontà inglese di seppellire per sempre scomode verità[6].
La scalata al potere di Matteo Renzi è iniziata in pieno mandato George W. Bush ed il fatto che sia stato affiancato sin da subito da personaggi di area conservatrice (Micheal Leeden, Richard Perle, Ronald Spogli) rendono più probabile la sua affiliazione/vicinanza alla Gran Loggia d’Italia degli Alam piuttosto che al Grande Oriente d’Italia. L’eliminazione via scandalo giudiziario del principale concorrente alla poltrona di sindaco di Firenze, l’assessore Graziano Cioni; la vittoria alle primarie contro Lapo Pistelli prima ed alle comunali contro Giovanni Galli dopo; la defenestrazione di Enrico Letta e la salita a Palazzo Chigi passano tutte attraverso un salvacondotto americano ed il sostegno trasversale della massoneria. In quanto a politica estera, il primo governo Renzi è infatti completamente appiattito ai desiderata di Washington, come dimostra l’accettazione supina delle sanzioni economiche alla Russia e della cancellazione del South Stream che hanno prodotto danni miliardari all’economia italiana.
Differenze tra Mussolini e Renzi
Completamente differente è invece la dinamica sottostante alla salita al potere di Benito Mussolini e Matteo Renzi: il primo emerge al termine di una rivoluzione sociale ed economica che ha minato la stabilità del sistema, mentre il secondo è l’estremo tentativo dell’establishment di evitare una rivoluzione sociale ed economica.
Se la “rivoluzione fascista” non fu altro che propaganda, fu invece reale la rivoluzione politica che portò all’estinzione della Destra e della Sinistra storica ed all’affermazione di nuovi partiti di massa (comunista, popolare e fascista); fu vera rivoluzione economica la trasformazione dell’Italia da paese agricolo del 1914 ad industriale del 1918; fu vera rivoluzione il sorgere delle rivendicazioni sociali di milioni di uomini strappati dalle campagne e portati al fronte durante la guerra. Nei travagliati anni del dopoguerra, afflitti dalla crisi economica e dalle agitazioni del biennio rosso, Mussolini catalizza le ansie e le aspirazioni della piccola e media borghesia disorientata dai rivolgimenti: si tratta non a caso di un movimento che agli albori si oppone frontalmente sia al proletariato industriale ed al lavoro bracciantile (il fascismo agrario) che al grande capitale. È significativo infatti che l’atteggiamento del Corriere della Sera è freddo verso il fascismo fino alle elezioni del 1921 e che Mussolini, attraverso il tentativo di inglobare i sindacalisti confederali nel suo primo governo, cerchi di divincolarsi dai monarchici e dai nazionalisti di Luigi Federzoni. Ne nasce quindi un lotta interna al fascismo tra revisionisti ed intransigenti, che si protrae fino al 1924, dove i secondi si oppongono alla normalizzazione e invocavano la vera rivoluzione.
Fonte:  Piero La Porta
Nella Foto in alto: Renzi con il finanziere De Benedetti, suo sostenitore

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