lunedì 14 aprile 2014

Basi italiane per combattere Al Qaida

sigonalla
Dopo vari eventi che hanno insanguinato i paesi islamici gli Usa hanno ripetuto che agiranno con fermezza e neutralizzeranno, come hanno già fatto, i terroristi. Intanto hanno i droni presenti nella base di Sigonella, che è una delle otto basi Usa site in Italia, ma che può essere anche usata dall’Alleanza Atlantica.

Sigonella verrebbe utilizzata per operazioni antiterrorismo nella riva Sud del Mediterraneo e in primo luogo per colpire obiettivi strategici . Droni sono già stati usati contro le armate di Gheddafi . Ma c’era l’autorizzazione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (Cds) a usare la forza per “scopi umanitari”.
Poiché un’azione armata in partenza da Sigonella coinvolgerebbe la responsabilità italiana sarebbe opportuno aprire un dibattito sulle misure che s’intendono intraprendere. In particolare, se queste debbano essere effettuate con o senza la partecipazione italiana. In ogni caso, anche se l’Italia non dovesse essere direttamente coinvolta, il nostro paese dovrebbe comunque autorizzare una missione coercitiva, essendo Sigonella sotto sovranità italiana. Ognuno ricorderà l’incidente che ebbe luogo nel 1985, dopo il dirottamento dell’aereo egiziano che trasportava in Tunisia i dirottatori dell’Achille Lauro. L’Italia negò l’assenso e impedì il trasferimento dei terroristi su un aereo della Delta Force per il successivo avvio negli Stati Uniti.
Tre sono i nodi giuridici da sciogliere: la sovranità dello Stato dove sono stanziati i terroristi, la legalità dell’azione militare secondo il diritto internazionale, l’applicabilità del diritto internazionale umanitario (come viene eufemisticamente chiamato il diritto dei conflitti armati) e il rispetto dei diritti dell’uomo.
L’uso della forza per operazioni di polizia in territorio altrui postula il consenso del sovrano territoriale. Altrimenti un intervento può essere effettuato solo se in legittima difesa o autorizzato dal Cds. La Libia ha dato l’assenso agli Usa per operazioni di polizia, ma il Sudan e lo Yemen (in quest’ultimo caso il parlamento) lo hanno negato. Il Pakistan ha protestato quando il commando Usa penetrò nel suo territorio per uccidere Bin Laden. Difficilmente il Cds voterebbe una risoluzione che autorizzi l’uso della forza in territorio altrui allo scopo di procedere ad uccisioni mirate.
È difficile anche pretendere che si possa intervenire con una semplice operazione di polizia quando lo Stato, sul cui territorio sono stanziati i terroristi, non sia in grado o non voglia neutralizzarli. Ciò giustificherebbe un’azione a protezione dei propri connazionali in pericolo di vita, per salvarli e riportarli in patria, ma non un’azione di polizia quando la tragedia si è ormai consumata, che somiglierebbe ad una rappresaglia armata, vietata dal diritto internazionale. Non resta quindi che l’esimente della legittima difesa.
L’amministrazione americana invoca a fondamento delle uccisioni mirate il diritto di legittima difesa. In ciò Obama non si differenzia molto dal suo predecessore, Bush, che aveva invocato la tesi della guerra preventiva, ampiamente teorizzata. Il problema è che la legittima difesa è esercitabile nei confronti di uno stato, responsabile di un attacco armato, quando questo sia stato sferrato o nell’imminenza dello stesso. Le organizzazioni terroriste non sono uno stato e, tranne il caso in cui agiscano per conto di un governo, l’azione in legittima difesa si prefigura come un’azione armata contro un attore non statale.
A parere di chi scrive questo è ammissibile, ma vi sono autorevoli opinioni contrarie. Inoltre l’attacco armato, per consentire la reazione in legittima difesa deve avere un congruo spessore, e la reazione contro le bande terroriste è ammissibile solo se si adotta la teoria dell’evento cumulativo, per cui una serie di azioni di minore entità finiscono per configurare un attacco armato (c.d. teoria della ripetizione dei colpi di spillo). Quanto all’imminenza dell’attacco, occorre provare, come pretendono gli Stati Uniti, che il terrorismo è un attacco permanente, che conosce talune pause ma è legato da un continuo filo conduttore.
Le modalità dell’azione cambiano a seconda che venga applicato il diritto dei conflitti armati o quello relativo ai diritti umani.
Il diritto dei conflitti armati consente di singolarizzare l’obiettivo militare e quindi non vieta le uccisioni mirate, purché il nemico sia un obiettivo legittimo (ad es. un combattente), non si sia arreso o sia fuori combattimento. La prospettiva cambia se trovano applicazione i diritti dell’uomo. Uccisioni mirate sono proibite e le azioni di polizia debbono essere volte alla cattura del terrorista e alla sua consegna all’autorità giudiziaria. Tra l’altro l’Italia è membro della Convenzione europea dei diritti dell’uomo al cui rispetto è vincolata anche per operazioni extraterritoriali.
Come si vede i nodi da risolvere non sono di poco conto e investono l’annoso problema, mai del tutto risolto, dell’uso delle basi militari in territorio italiano. In un intervento a fine aprile di quest’anno l’assistente del presidente Usa per la sicurezza interna e antiterrorismo, John O. Brennan, ha affermato che l’uso dei droni per le uccisioni mirate dei terroristi è “legale” (legal), “etico” (ethical) e, bontà sua, perfino “saggio” (wise). Ne ha spiegato la regione con dovizia di motivazioni e citazione di autorità giuridiche. La posizione dell’amministrazione americana è chiara. Si può accettare o respingere. Quello che si vorrebbe è che il nostro governo prendesse una posizione decisa, senza nascondersi dietro i soliti equilibrismi o, peggio, scegliesse il silenzio.
Natalino Ronzitti è professore di Diritto Internazionale e consigliere scientifico dell’Istituto Affari Internazionali.

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