.jpg)
La democrazia è un sistema di governo troppo costoso,
dispersivo, egualitario e va abolita per decreto con il consenso unanime, a
volte inconsapevole e involontario, di coloro che più beneficiavano degli agi
della stessa democrazia. Un paradosso che trova giustificazione appunto nel
caos culturale con cui siamo stati buggerati e raggirati negli ultimi decenni.
Quasi dappertutto sono state infatti le fasce più deboli e indifese della
popolazione, le classi medie impiegatizie, gli operai sfruttati e sottopagati
ad erigere a loro paladini i despoti, gli oligarchi, i plutocrati, i banchieri
che hanno operato e continuano a lavorare alacremente per distruggere lo stato
di diritto, fondamento della democrazia. L’attività di propaganda e
disinformazione è stata così capillare e pervasiva da indurre i popoli di tutto
il pianeta a parteggiare per coloro che più disprezzano le esigenze dei popoli,
la giustizia sociale e il benessere diffuso. E’ stato addirittura coniato il
termine “populista”, accompagnato spesso dal più tecnico “demagogo”, per
attaccare quei pochi che ancora si affannano per difendere le istanze del
popolo vessato. E non di rado capita pure di essere accusati di “populismo” dai
membri più emarginati, isolati e umiliati del popolo. Ci sarebbero insomma tutti
gli elementi per deporre le poche armi spuntate rimaste e lasciarsi trascinare
dalla deriva.
Eppure, proprio nel punto più basso della parabola
discendente della democrazia, qualcosa è avvenuto. Qua e la accademici,
intellettuali, semplici cittadini, me compreso, si sono risvegliati dal torpore
e sono insorti per fare sentire la loro voce e spiegare agli altri cosa stava
accadendo. Un movimento oltremodo disomogeneo e disorganizzato che ha la
fortuna ma anche il limite di essere sorto spontaneamente, senza alcuna precisa
programmazione e definizione degli obiettivi condivisi. Ognuno va per la sua
strada e tutti credono di remare dalla parte giusta più e meglio degli altri.
Il nemico comune è la mistificazione e il ribaltamento della verità dei fatti,
ma i mezzi utilizzati da ognuno sono tra i più svariati: associazioni
culturali, movimenti politici, think tank, apparizioni televisive, convegni,
assemblee costituenti, manifesti, blog, siti internet. Il centro del contendere
rimane però quasi sempre lo stesso: l’economia e i rapporti di subalternità fra
politica ed economia. E’ la politica che deve governare l’economia oppure sono
i dati economici a vincolare l’azione politica? Per rispondere a questa domanda
e spiegare come la penso comincio una breve dissertazione sui rapporti fra
Etica ed Economia, perché dal malinteso e dalla commistione che sorge
continuamente fra gli ambiti morali e scientifici, possono essere poi dedotti a
cascata tutte le corrette gerarchie e interpolazioni fra azioni politiche ed
economiche.
Se l’economia fosse una scienza esatta non ci sarebbe di che
dibattere: è impossibile dare un giudizio di valore sul fatto che 2 più 2 fa 4.
Questa è una verità assoluta valida a qualunque latitudine e in qualsiasi epoca
storica. Eppure trattandosi di una scienza sociale, influenzata dai
comportamenti dei singoli individui, delle aggregazioni di individui e delle
realtà istituzionali, in economia non è detto che 2 più 2 faccia 4. Può fare 5
in Australia e 6 in Svezia, e 8 oggi e 10 domani. Una volta date certe ipotesi
di partenza e i vincoli del problema, il risultato rimane nella maggior parte
dei casi un mistero imponderabile, che può essere approssimato solo utilizzando
strumenti statistici o l’analisi delle serie storiche. Dare un giudizio di
valore ad una determinata decisione economica è quindi estremamente difficile
non tanto perché abbiamo a che fare con verità assolute e neutre come avviene
nella matematica, ma perché l’esito di ogni singola operazione economica
potrebbe rivelarsi infinitamente distante dalle intenzioni che l’hanno
generata. I dubbi sulla buona o cattiva fede di coloro che si assumono la
responsabilità di fare scelte economiche dovrebbero essere quindi all’ordine
del giorno, dato che nessuno, nemmeno il più abile degli analisti economici, sa
con esattezza dove porterà una certa direzione intrapresa. Ciò significa che
dobbiamo astenerci da fornire giudizi di valore all’economia? Non esattamente,
in un’accezione che spiegheremo meglio più avanti.

In questo senso è possibile ammettere una stretta
correlazione fra Etica ed Economia, dal momento che blindare l’azione economica
con vincoli preimpostati significa
annientare la prassi politica, la quale non può più agire nei termini e nei
limiti consentiti dalle carte costituzionali nazionali per garantire i principi
etici, i diritti democratici e il benessere di un’intera collettività. Il
processo è ormai irreversibile ed il termine “paralisi”, arresto (in inglese
“shutdown”), è quello che sintetizza meglio la condizione politica dei più
sviluppati paesi occidentali, Stati Uniti ed Europa in testa. La politica non
può fare nulla in termini di pianificazione economica, perché quest’ultima
attività cruciale e fondamentale per la coesione sociale di uno Stato è stata
da tempo completamente demandata a enormi gruppi di potere decisionale privati,
che possono essere di volta in volta identificati con le multinazionali, i
colossi bancari, assicurativi, finanziari, o più genericamente con il termine
“mercati”.
In fin dei conti, impedire ai decisori pubblici di
intraprendere un qualsiasi programma di pianificazione economica, non significa
che la pianificazione economica non esista tout court, ma che quest’ultima
venga decisa nelle segrete stanze di comitati d’affari, gruppi di pressione e
di potere, lobbies, consigli di amministrazione. E siccome questi ultimi, a
differenza della politica che “dovrebbe” avere come unico obiettivo il bene comune,
esprimono spesso interessi molteplici e contrastanti, ecco che la conseguenza
più immediata diventa la paralisi, il caos, la confusione istituzionale. Dove
non si capisce più chi difenda cosa e quali politici siano collusi o estranei
al sistema. Uno stato di cose che danneggia ovviamente le fasce più deboli
della popolazione, le quali non trovando più nella politica una sponda sicura
per la tutela dei loro diritti rimangono in balia dei poteri forti e
dell’inesorabile “massacro sociale” perpetrato ai loro danni.
Come fa notare il professore di economia Giulio Palermo, nel
suo brillante saggio “Il Mito del Mercato Globale-Critica delleTeorie
Neoliberiste”, che mette in luce con rigore e in maniera accessibile a tutti le
distorsioni e le aberrazioni dei dogmi e dei falsi miti della dottrina
economica neoliberista, con cui ci hanno riempito la testa in questi ultimi
anni: “le imprese, più sono grandi, più pianificano. Le grandi multinazionali
pianificano tutto: produzione, vendita, commercializzazione, trasporto,
variabili finanziarie, assistenza alla clientela, carriere interne, rapporti
con le altre imprese, rapporti con la politica, rapporti con gli stati. Né se
ne può fare una questione di dimensione, visto che le multinazionali di oggi
hanno bilanci comparabili e, in molti casi, superiori a quelli di interi paesi
e spaziano spesso nella produzione di beni alquanto diversi tra loro.” E
ancora, in difesa della pianificazione pubblica centralizzata dell’economia:
“Stando così le cose, non si capisce allora come mai i pianificatori
capitalisti (i grandi manager delle multinazionali) riescano a gestire così
efficacemente l’informazione esistente, mentre per il ministro dell’economia
del paese socialista ciò costituisca un problema insormontabile; né, più in generale,
si spiega perché, quando la pianificazione è capitalista, essa è sinonimo di
efficienza e quando diventa invece socialista è sinonimo di impossibilità.”
Non è un caso che siano state le grandi aziende
multinazionali ad imporre agli Stati di funzionare a loro immagine e
somiglianza, mettendo ai posti di comando loro affiliati, banchieri, managers,
imprenditori e costringendo il decisore pubblico ad utilizzare prassi di
gestione contabile privata, come il pareggio di bilancio. E per meglio suggestionare
e plagiare le masse, sono state addotte spesso giustificazioni “moralistiche” e
“paternalistiche” per avallare le loro tesi sconclusionate: “lo Stato deve
funzionare come un buon padre di famiglia, facendo quadrare i conti ed
equilibrando perfettamente le entrate con le uscite”. Ora sappiamo già che un
vero Stato, capace di avere autonomia decisionale nelle scelte di politica
economica e monetaria, non può mai essere paragonato ad una singola famiglia,
in primo luogo perché al contrario di uno Stato Sovrano quest’ultima non può
emettere mezzi monetari per ripianare i propri debiti, e in secondo luogo
perché gli ambiti di competenza di uno Stato spaziano in un campo enormemente
più vasto di quello di una famiglia o di una singola azienda (sanità, previdenza,
assistenza, istruzione, tutela dell’ambiente e del patrimonio pubblico,
amministrazione della giustizia, sicurezza, difesa dei diritti costituzionali,
rapporti internazionali).
Per capire meglio quest’ultimo punto, basta confrontare il
flusso dei redditi e delle spese di una famiglia di operai con quella di uno
Stato, per evidenziare quante poche interconnessioni e interdipendenze esistano
nel primo caso se paragonato con il secondo. Il capo famiglia riceve lo
stipendio da un’azienda e spende poi i soldi in un mercato in cui i prodotti
della sua azienda hanno spesso un peso marginale o del tutto irrilevante
(l’operaio non è obbligato a comprare i prodotti che fabbrica per ricevere lo
stipendio o per non fare fallire l’azienda in cui lavora). Le scelte di spesa
della famiglia non influenzano per nulla la continuità di reddito, perché i due
flussi si muovono in contesti completamente differenti. La spesa e la
tassazione (le uscite e le entrate pubbliche) dello Stato vengono invece
rivolte nel medesimo spazio collettivo: la spesa per servizi, stipendi,
investimenti, viene fatta per i cittadini e i prelievi fiscali vengono fatti a
carico dei cittadini. Qualunque spostamento nell’uno o nell’altro senso sposta
quindi gli equilibri all’interno della cittadinanza, con effetti moltiplicativi
e redistributivi che ormai sono ben noti anche ai non addetti ai lavori. Quando
uno Stato taglia la spesa pubblica, ciò statisticamente comporterà una
flessione della domanda aggregata e del reddito nazionale, con conseguente
riduzione delle entrate fiscali dello Stato. Non appena invece lo Stato impone
una nuova tassa, questa avrà un impatto negativo sui consumi e sul reddito,
finendo spesso per ridurre di una quantità maggiore le entrate dell’erario sia
in termini diretti che indiretti e avvantaggiando certe classi sociali a
discapito di altre, in base alla progressività e alla calibrazione della tassa
stessa. In definitiva, tanto è facile condurre una famiglia (si fa per dire,
soprattutto di questi tempi), quanto è complicato governare uno Stato.
Se dovessimo invece affidarci al puro tecnicismo economico,
saremmo addirittura costretti ad escludere qualunque opzione redistributiva e
sociale dall’orizzonte delle scelte del
decisore pubblico perché secondo la Pareto-efficienza non si può migliorare in
assoluto l’allocazione delle risorse quando ciò comporta un peggioramento di
condizione anche solo di un individuo: detto in altre parole, non potremmo
fornire un sussidio sociale ai più poveri se ciò implica un aumento di
tassazione per un ricco. La tecnica economica insomma si concentra molto
sull’aumento di efficienza del sistema e di creazione di ricchezza in generale
(il PIL) ma è assolutamente disinteressata a ciò che avviene all’interno del
sistema, in termini di redistribuzione, equità, giustizia. Definendo
furbescamente questo "disinteresse" come neutralità scientifica, la
quale a sua volta viene rivendicata sulla base della solita ricostruzione
ideale e favolistica della storia inventata dagli economisti: in un lontano,
arcadico passato eravamo tutti uguali e i poveri sono diventati tali perché non
hanno saputo sfruttare bene le opportunità concesse dal libero mercato, mentre
tutte le questioni legate alle posizioni dominanti, ai diversi rapporti di
forza fra classi storicamente agiate e categorie sfruttate sono solo dettagli,
su cui un vero studioso di economia non può e non deve soffermarsi. In questo
senso ogni intenzione redistributiva dello Stato diventa deleteria e passibile
di inquinare la perfetta efficienza allocativa del mercato, perché quest’ultimo
sa fare già in modo automatico e ottimale ciò che lo Stato vorrebbe fare per
decreto. Capite bene che una tale visione surreale e semplicistica della storia
si scontra innanzitutto con il buon senso, e in secondo luogo con i dati
empirici, che hanno dimostrato a più riprese che il mercato non può essere
considerato una grandezza o un luogo ideale neutro al pari di un campo
vettoriale, un piano cartesiano, uno spazio multidimensionale, perché se in
questi ultimi si muovono numeri insensibili e imperturbabili, nel mercato
interagiscono invece uomini e questi oltre ad avere passioni, vizi, virtù,
assumono spesso un peso, una forza e una capacità di spesa superiori non tanto
per loro abilità o per scelta ma per fortuna, coercizione, raggiro e necessità.
Queste difficoltà e anomalie i nostri politici, almeno per
sommi capi, li conoscono bene, tuttavia siccome da tempo non si occupano più di
politica e governo della nazione per il bene della collettività, ma fanno
soltanto saccheggio feroce delle ricchezze pubbliche e private del paese per
conto di una minoranza di cui essi stessi fanno parte, ecco che il teatrino
della politica viene utilizzato con buoni frutti per coprire le loro reali
intenzioni e in mancanza di una critica efficace può continuare indisturbato
ininterrottamente. E così in Italia si discute da anni delle risibili beghe
sessuali e giudiziarie di un vecchio impotente, delle ingarbugliate trame di
palazzo e di partito di inqualificabili gruppi dirigenti imprenditoriali e
politici, di questioni sociali e civili importanti in un paese economicamente e
culturalmente evoluto (femminicidio, omofobia, diritto vita, ius soli) ma
devastanti di fronte alla prospettiva di un paese a pezzi, senza più uno stato
sociale degno di questo nome, i servizi pubblici allo sbando, la svendita e lo
smantellamento del tessuto produttivo, i diritti costituzionali quali il
lavoro, la dignità e il giusto reddito calpestati giornalmente. Con i partiti
cosiddetti di “centrodestra” e “centrosinistra” che, in mezzo alla furibonda
espropriazione del nostro futuro e dei fondamenti della democrazia, si sono
specializzati in un preciso settore di aggressione: il centrodestra vuole
derubarci con il taglio della spesa pubblica, il centrosinistra con l’aumento
delle tasse. Ma entrambi gli schieramenti hanno infine lo stesso obiettivo: il
depotenziamento del ruolo dello Stato nelle scelte di carattere politico ed
economico e la riduzione dell’intero paese a protettorato o colonia delle
ricche nazioni del nord, prendendo a pretesto il rispetto dei vincoli europei
di bilancio e degli accordi intergovernativi capestro (vedi Fiscal Compact e
Mes) che prima firmano e poi rinnegano.
Sembra un controsenso che i politici si affannino per
contare sempre meno in politica, ma in effetti i benefici personali che
guadagnano dalla sudditanza di fronte ai poteri forti sono di gran lunga
superiori rispetto a quelli ottenuti da un’onesta militanza per la difesa del
proprio popolo. Secondo voi un politico guadagna di più quando lotta per garantire
il diritto pubblico allo studio o alla salute dei propri concittadini, o quando
aiuta le lobbies del gioco d’azzardo ad evadere le tasse? Ha più vantaggi ad
assumersi la responsabilità di governo di un paese complesso come l’Italia
oppure a lasciarsi telecomandare da enti sovranazionali privatistici che oltre
ad avere potenzialità finanziarie illimitate sanno già benissimo cosa fare
della nostra nazione? Fate un po’ i conti e il risultato questa volta è presto
ottenuto. I politici ormai fanno a gara per dimostrare fedeltà al più forte di
turno e per manifestare in ogni occasione disponibile religiosa devozione ai
fallimentari dogmi economici, quali la concorrenza imperfetta, il libero
mercato che in sé non garantisce alcuna libertà ma favorisce la concentrazione
della ricchezza in poche mani, la competitività senza confine che mette uno
contro l’altro i lavoratori di paesi diversi in una folle corsa al ribasso,
l’autonomia e l’indipendenza della banca centrale, che ha privato i decisori
pubblici della leva monetaria ed eliminato a monte il necessario coordinamento
fra politica monetaria e fiscale, la moneta unica, che non consente alcun tipo
di aggiustamento attraverso la flessibilità dei tassi di cambio e scarica tutti
gli oneri sui salari dei lavoratori. Una vera e propria camicia di forza che ha
prevedibilmente portato nel baratro il nostro paese, con punte di
disoccupazione giovanile del 40% e la caduta a picco del reddito nazionale.

Pensate un po’, quest’ameba travestita da politicante sarebbe
disposto a morire per difendere il pareggio di bilancio, il tasso di inflazione
al 2%, il limite del debito pubblico al 60%, l’apertura incontrollata agli
scambi commerciali e finanziari internazionali, le privatizzazioni selvagge,
per dimostrare che 2 più 2 fa 5. Perché da che mondo è mondo, e fino a prova
contraria, tutti i modelli economici rigidi si sono sempre rivelati transitori
e instabili, mentre ben altra cosa sono quei monolitici principi etici
universali, impressi a fuoco e a sangue nella Costituzione, che invece di
scomparire, come insistentemente vorrebbero alcune élite di potere, si
corroborano nel tempo a qualunque latitudine. Diffidate quindi da tutti coloro
che vi invitano a non inquinare il dibattito economico con questioni morali,
perché ogni scelta economica, soprattutto quando diventa irreversibile e
immutabile, nasconde un preciso indirizzo politico e ogni indirizzo politico ha
in sé una sua morale. Lasciare solo agli economisti di professione dibattere di
economia, equivale a consentire soltanto ai biologi di parlare di Vita. Una
cosa è il tecnicismo, altra cosa sono i principi che vanno oltre la tecnica e
rappresentano l’ossatura portante di un individuo e di una nazione. E concludo
con una riflessione ampiamente strumentalizzata e fraintesa del più grande
economista del secolo scorso, John Maynard Keynes:
“Ma questo lungo periodo è una guida ingannatrice negli
affari correnti. Nel lungo periodo siamo tutti morti. Gli economisti si
attribuiscono un compito troppo facile e troppo inutile, se, in momenti
tempestosi, possono dirci soltanto che, quando l’uragano sarà lontano, l’oceano
tornerà tranquillo”.
Questa frase ha suscitato una ridda di interpretazioni, che
hanno grossolanamente confinato il pensiero del grande economista in un arco
temporale molto ristretto e all’interno di un significato ancora più riduttivo:
“siccome nel lungo periodo saremo tutti morti, fregatevene del futuro e
concentratevi sul presente, facendo tutto ciò che è necessario per stare bene
noi, adesso. Spesa pubblica a deficit, piena occupazione, politiche
inflazionistiche. Per nostra fortuna le eventuali conseguenze delle nostre
attuali scelte sbagliate dovranno sobbarcarsele le future generazioni, perché
tanto a quel punto noi non ci saremo più, saremo morti”. E invece, inserendo
questa frase in una chiave di lettura molto più ampia, risulta chiaramente che
Keynes volesse dire tutto il contrario: “vivete responsabilmente il presente,
perché il futuro è una somma di tanti brevi periodi, e se continuate a fare scelte
sbagliate oggi non potete sperare che arrivi come per magia un futuro luminoso
di benessere per tutti, confidando in un’ipotetica e indimostrabile stabilità
dei mercati che prima o dopo tendono sempre all’equilibrio. Se la situazione è
instabile e squilibrata oggi, e nessuno fa niente per aggiustarla, lo sarà
anche domani, e dopodomani, e fra un anno, e fra un secolo”. Keynes si dimostrò
un buon profeta e non è un mistero che lui stesso, che era un economista,
credesse nel primato della politica, dell’etica sull’economia, e relegasse il
ruolo degli economisti a quello di semplici dentisti, capaci di darti la cura
giusta al momento giusto, e poco più.
Nessun commento:
Posta un commento